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Counseling Day 2023


 
Non è un caso che la prima proposta di legge “made in Facebook” riguardi la riforma delle professioni regolamentate. È stato naturale che da una discussione del tutto “disintermediata” e aperta nello spazio virtuale di un gruppo FB (“Io non voglio il posto fisso, voglio guadagnare”) uscisse una proposta radicalmente alternativa a quelle che rubricano alla voce “liberalizzazioni” misure tese a rafforzare l’intermediazione degli Ordini sull’accesso al sistema delle professioni. È stato altrettanto naturale per Libertiamo promuoverne la diffusione e costruirvi intorno un pacchetto di mischia parlamentare. Non è neppure strano che ad adottare la proposta di legge sia stato un gruppo di deputati del Pdl (Della Vedova, Cazzola, Martino, Moles, Golfo e Raisi), sebbene l’orientamento ufficiale della coalizione di centrodestra (come, mutatis mutandis, quello prevalente nel Pd) sembri ormai quello di dichiarare la resa al sistema degli Ordini professionali e di riconoscere a essi la dignità di intangibili Sancta sanctorum. All’interno del Popolo della libertà rimane viva la sensibilità per una liberalizzazione privata degli elementi più o meno simbolicamente “ritorsivi” di cui era stata caricata nella stagione del centrosinistra (con un certo senso di odio di classe), ma ancorata, nello spirito e nella lettera, all’esigenza di ripristinare logiche di mercato (sull’accesso, sulla selezione, sulle tariffe, sulla pubblicità) in un sistema che oggi si vanta, in nome della natura semi-sacramentale della professione, di rifuggire da logiche “mercantili”.

È comprensibile che un paese che ha storicamente legato e delegato alla disciplina degli Ordini compiti di vigilanza sull’attività, sulla correttezza e sulla reputazione dei professionisti guardi con apprensione a una riforma che, in apparenza, sostituisce la de-regolamentazione all’auto-regolamentazione. Ma non è onesto tacere delle derive corporative di questo “schema” e delle conseguenze che esso ha comportato all’interno e all’esterno del sistema delle professioni. Una cosa è dichiarare una guerra ideologica, inutile e astratta agli ordini professionali: altra cosa è accettarne e ulteriormente promuoverne l’assoluta autoreferenzialità. Il problema della liberalizzazione delle professioni – sarebbe bene ricordarlo – non è solo di equità, ma è anche di efficienza. Il sistema ordinistico, così come si è andato consolidando, istituisce sul lato dell’offerta una robusta barriera all’accesso e comporta, per le sue dinamiche anticoncorrenziali, delle ricadute pesanti sul versante della domanda. I costi della compliance fiscale per un’impresa, o quella sorta di sovrapprezzo che una famiglia sopporta per acquistare un immobile non sono questioni che riguardino solo i commercialisti e i notai. E non vanno trattate, discusse e decise solo con loro, come invece normalmente si fa.

A dare eloquente testimonianza di questo clima è sufficiente il disegno di legge di riforma della professione forense in discussione al Senato, che disciplina l’accesso all’attività e il suo esercizio in modo tale da trasformare il Consiglio nazionale forense in una sorta di “cartello” istituzionale, che anziché finire sotto la scure dell’Autorità per la concorrenza (come succederebbe in un paese normale), avrebbe un legittimo potere di blocco sul mercato della professione. Vediamo più nel dettaglio la proposta di liberalizzazione, che non si prefigge alcun fine eversivo, ma cerca al contrario di “normalizzare” l’esercizio dei servizi professionali in Italia, consentendo ciò che in un paese ad economia avanzata non dovrebbe mai essere messo in discussione: la pubblicità dell’attività professionale sui quotidiani nazionali, sulle emittenti radiotelevisive, su internet (in teoria permessa dalla legge Bersani, ma poi considerata poco “decorosa” e quindi scoraggiata a suon di provvedimenti disciplinari da alcuni Ordini professionali); la costituzione di società professionali di capitali, favorendo l'alleanza tra professionisti e soci di mero investimento; la compatibilità dell’attività di avvocato o commercialista con quella di giornalista e con l’attività commerciale; la possibilità per le società interprofessionali di assistere e rappresentare in giudizio i clienti, attraverso un proprio socio o dipendente abilitato a farlo.

Sull’annosa questione delle tariffe occorre mettere un punto fermo ai tentativi degli Ordini, pasticciati e un po’ bizantini, di vanificare le disposizioni della legge Bersani, che aveva vietato l’obbligatorietà degli schemi tariffari. La proposta di legge ritorna alla versione originaria del cosiddetto decreto Bersani, vietando non già l’obbligatorietà delle tariffe ma la loro stessa fissazione. Durante la conversione del decreto si era già provveduto, prima ancora di fare la legge, a trovare l’inganno e a vietare non già le tariffe, ma la loro obbligatorietà, consentendo ad esempio all’Ordine degli avvocati di continuare a fissarle e a considerare indecorosi e quindi inapplicabili per gli iscritti quegli onorari non in linea con gli schemi tariffari. In più, seguendo un’esplicita indicazione dell’Antitrust, nella proposta di riforma si stabilisce una norma d’interpretazione autentica dell’articolo 2233 del Codice Civile (“la misura del compenso deve essere adeguata all’importanza dell’opera e al decoro della professione”), precisando che la disposizione in questione si limita a disciplinare rapporti di tipo privatistico tra le parti di un contratto e non attribuisce alcun potere agli Ordini in termini di verifica della corrispondenza del compenso richiesto al decoro della professione e all’importanza dell’opera.

Infine, con un esplicito riferimento ai giovani, sono previste due misure: con la prima si elimina il regime dei minimi contributivi previdenziali per i professionisti, problema assai sentito dai più giovani che - appena entrati nel mercato del lavoro professionale - sono spesso costretti a pagare cifre considerevoli alle Casse, magari senza avere ancora guadagnato alcunché; con la seconda si dà facoltà agli studenti universitari di svolgere già durante il corso di studi il periodo di praticantato obbligatorio, propedeutico all’abilitazione professionale. Questa, in pillole, la proposta. Come quasi tutte le riforme “strutturali” – capaci cioè di incidere nel lungo periodo sui tassi di crescita e sulla competitività del paese – anche quella delle professioni coinvolge interessi consolidati e politicamente influenti e obbliga a una intelligente prudenza. Che però non significa star fermi, ma capire quando è il momento di muoversi.

titolo: Sciogliamo le catene alle professionalità
autore/curatore: Carmelo Palma, Piercamillo Falasca
fonte: Fondazione Fare Futuro
data di pubblicazione: 23/07/2009

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